La vita di chi lavora e vive all’estero è un concetto molto esotico finché non ti crolla addosso. Poi, in un secondo, ti trovi - dal dover rinnovare l’abbonamento del tuo treno, che come un pendolo ti porta e riporta ogni giorno tra rassicuranti e scontate pareti conosciute – a comprare un biglietto aereo di sola andata per una città mai vista, di un paese visitato in parte, in vacanza, e che per di più ti evoca una qualche diffidenza.
Così, un venerdì sera di fine luglio, con le valigie già chiuse per le vacanze – destinazione Normandia – mio marito arrivò con la notizia che era nell’aria da anni (ma proprio per questo ormai quasi accantonata): “Andiamo per un paio d’anni in Germania; comincio a inizio settembre”. Et voilà. In un secondo, da “Casulat” (abitante di Cassolnovo, provincia di Pavia) diventi un “Expat”. Un espatriato.
Questa era la situazione, allora: tre figli, rispettivamente di 10, 8 e 0 anni; 3 cani, di cui un Howavart (Kartino), un pastore bergamasco con rasta fino a terra al seguito (Lilli) e una bastardina dominante di nome Jenna.
Era il 2003, e le connessioni internet da mobile un miraggio di là da venire, non parliamo di case vacanze con wifi incorporato. Partimmo per le vacanze con un elenco di scuole internazionali da contattare (che si rivelarono tutte chiuse), una cartina della Germania (almeno per cominciare ad orientarci) e un bel quaderno dove annotare un piano d’attacco per quando saremmo tornati a casa.
Inutile dire che non ci trasferimmo a inizio settembre; non tutta la famiglia, almeno. Mio marito andò solo, trovò una casa e la scuola internazionale per i bambini.
In Italia, nel frattempo, i bambini grandi fecero una full immersion di lingua, con una ragazza inglese che stava con loro tutto il giorno; io organizzai il trasloco e la casa in Italia, tra le proteste e un pianto e l’altro dei bambini: “noi stiamo qui!”, “non vogliamo lasciare gli amici!”, “non vogliamo lasciare le maestre!” ecc. ecc. L’ultimo, nel frattempo, continuava imperterrito a renderci la vita impossibile; mi chiedevo come mai avrei fatto 1) senza la mia santa vicina che passava la giornata piegata in due a “far camminare” un bambino di 8 mesi che si era intestardito a voler camminare, se no erano urli da indemoniato, 2) a farlo addormentare senza un campo dissestatissimo a portata di mano (si addormentava solo andando a tutta velocità col passeggino su un terreno sconnesso, praticamente frullandolo) e 3) a gestire un bambino che urlava la metà del tempo in un ambiente urbano (in Italia vivevamo in un ambiente stra-rurale).
Ma la macchina era avviata e non si poteva fermarla.
Ci trovammo così un giorno di fine ottobre in una casa nuova, bella nella sua decadenza anni ‘30 poco ristrutturati, con un giardino incolto di edera e pioppi; con un sistema scolastico sconosciuto e molto strano (“piove, non ci lasciano stare dentro all’intervallo!”, “fa freddissimo, ma ci fanno uscire a far ginnastica in maniche corte!!!”, ma anche “se finiamo il compito possiamo leggere sdraiati per terra senza scarpe!”); con una lingua incomprensibile e impossibile da parlare nonostante l’illusione di averla studiata al liceo; sbatacchiando ogni sera, sul marciapiede davanti casa, il bambino più piccolo nel suo passeggino, sotto gli sguardi inorriditi dei passanti. E quando, una settimana dopo, dovendo uscire per una cena di lavoro, lasciammo i bambini a una babysitter trovata all’ultimo momento su internet (in Germania erano già organizzati anche allora), e tornando trovammo Pietro in un lago di pipì con il pannolino messo al contrario (sì, con la parte impermeabile all’interno, e quella assorbente all’esterno), pensai solo una cosa: non può che migliorare!