"Il professor Sergio Gamba
non aveva mai avuto bisogno di nessuno,
e ora non si bastava più;
non c’era nulla che potesse
riempire quel vuoto, pieno d’assenza,
definitivo come solo può esserlo la morte."
La trama
In una villa abbandonata, il Professor Sergio Gamba ritrova un corpo, mummificato.
Il passato, che aveva tentato di dimenticare, torna improvvisamente a bussare alla sua porta.
Un assaggio - Prologo
Lunedí 6 Febbraio 2017
Il vento sibilava sinistro dalle finestre divelte, volteggiava da una stanza all’altra sollevando gatte di polvere e immagini dimenticate. Refoli gelidi mi sferzavano a intermittenza il volto riesumando a ogni schiaffo, mio malgrado, un brandello di passato, quel passato che credevo sepolto. I ricordi si affastellavano neri, taglienti come lame, e si allacciavano ai miei sensi di colpa in una danza che non volevo condurre. Che non volevo subire.
Mi strinsi nel cappotto, mi guardai intorno, fissai il buco nero delle scale che scendevano in garage. Indugiai sul primo gradino. Poi, iniziai a scendere.
Le scale prendevano aria e luce solo dall’ingresso e così, man mano che procedevo, la mia ombra andava accorciandosi a ogni gradino; prima di arrivare al pianerottolo, il vento cessò di colpo e un inedito odore si fece strada nelle mie narici: dolciastro, di chiuso, di vecchio.
La seconda rampa della scala scendeva parallela alla prima; qui, il buio si fece totale. Mi fermai, incerto se proseguire o tornare indietro. Poi, allargai le braccia, una mano contro il muro e l’altra davanti a me, e ripresi con cautela la mia discesa. A ogni gradino, l’odore si faceva più pungente, mi respingeva e attirava in egual misura. A tastoni, arrivai alla porta in ferro del garage. La aprii.
Una zaffata mi investì; indietreggiai, sbattei contro il primo gradino della scala e caddi pesantemente all’indietro. Stordito, avvolsi la sciarpa intorno al viso, mi feci coraggio ed entrai in garage.
La luce, fioca, arrivava da un’unica, piccola finestra incrostata di sudiciume che si trovava in alto, al livello del terreno; gli occhi ci misero qualche secondo ad abituarsi a quella penombra e a riconoscere i contorni delle cose. Feci scorrere lo sguardo. In fondo, sotto atavici strati di polvere, due auto sportive seminascoste da teli mal sistemati; più vicino, una stufa a legna; ovunque, escrementi e polvere e pezzi di oggetti irriconoscibili. Sulla destra, dei mattoni impilati e ciò che poteva essere un giaciglio, sotto strati di coperte.
Vincendo l’odore e, a dirla tutta, la paura, mi avvicinai. Feci in tempo a vedere un berretto, a intravedere delle ossa.
Mi portai le mani ai capelli e corsi verso l’uscita del garage, sbattendo tra una macchina e l’altra. Mi ricordai dei chiavistelli, li cercai freneticamente nel buio, li trovai, li gettai a terra e spinsi con le spalle la basculante, che si alzò con un cigolio acuto, facendo alzare in volo due corvi spaventati.
Aspirai avido l’aria gelida; inciampando, mi lanciai nella luce tersa di febbraio e caddi sul tappeto di foglie morte. Tenevo gli occhi sbarrati, come se l’atto di chiuderli mi ricacciasse dentro al garage; avevo nel naso quell’odore che non se ne voleva andare, che forse non se ne sarebbe andato mai più.
Aspettai che il tremore passasse e poi, lentamente, rientrai nel garage. Illuminato dalla luce del mattino, si intravedeva il rosso delle Ferrari e splendeva la desolazione di quell’ultimo angolo di Villa Grimaldi.
Mi avvicinai al giaciglio. Nascosto tra le coperte, con un berretto liso in testa, un cadavere mummificato, la mano calzata in un guanto appoggiato a un mucchietto d’ossa.
Lentamente, come ubriaco, tornai sui miei passi. All’ingresso del garage mi appoggiai a una delle Ferrari, lo sguardo perso nel giardino abbandonato, gli occhi appannati da un rigurgito di emozioni, e piansi. Piansi per tutte le solitudini del mondo, compresa la mia.
L’ultima volta che avevo pianto era stato davanti alla bara di mio padre. Avevo nove anni.
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